venerdì 1 marzo 2019

Il caso Formigoni

Le sentenze si rispettano; tuttavia, esse aprono riflessioni, suscitano interrogativi, producono approfondimenti, aprendo, in certi casi, lo sguardo ad un orizzonte ben più ampio della stessa sentenza. Nel caso Formigoni, pur sul piano strettamente giudiziario, c’è un dato di fatto appurato in sede di processo: i dirigenti della Regione Lombardia, diretti responsabili degli atti amministrativi concernenti i rapporti tra Regione/Ospedale San Raffaele e Fondazione Maugeri, sono stati assolti in primo grado. Dunque, nulla da eccepire sul percorso amministrativo della Regione nell’organizzazione dei servizi alla persona, particolarmente in campo sanitario. Limiti ed errori, nel corso di un lungo esercizio del potere, non inficiano la razionalità di un modello amministrativo, prima ancora che politico, orientato all’efficacia, all’efficienza, alla qualità dei servizi. Evidentemente si può optare per un altro modello, privilegiare altri percorsi organizzativi, ma non è possibile disconoscere i dati ed i risultati di un’esperienza. I treni della speranza che dal Sud e da altre parti d’Italia e d’Europa partono per Milano è un’evidenza eloquente più di qualsiasi altro discorso. Formigoni è stato ed è il protagonista politico di questa eloquenza, nonché leader di un “tentativo” di presenza pubblica dei cattolici nell’organizzazione dello Stato. Su questo terreno è doveroso approfondire il discorso. Il tentativo di Formigoni e di tanti suoi amici rappresenta un caso unico nella storia del regionalismo italiano, in cui si sono mescolati il centralismo (del partito unico dominante comunista ed ex comunista) e l’assistenzialismo “pentapartitico”. Un noto politico del Mezzogiorno individuò nella forma mentis statalistica delle dirigenze regionali il fallimento dell’innovazione regionalista. Pur collocandosi nella scia della migliore tradizione del pensiero cattolico e laico sulle autonomie locali, con radici lontane (Gioberti, Rosmini, Cattaneo) e prospettive mediterranee, secondo l’insegnamento di don Sturzo (appassionato l’impegno del Movimento Popolare guidato da Formigoni per nuove forme di lavoro nel Sud), l’esperimento di Formigoni ha rappresentato una realtà nuova, inedita, di popolo, promotrice di sussidiarietà orizzontale e verticale, accrescendo il protagonismo dei corpi intermedi. Realtà nuova a fronte dell’autonomismo centralista della Lega “leninista”, secondo Bossi, e della vacuità della “rivoluzione liberale” interpretata dal berlusconismo. Realtà nuova a fronte di una sinistra e di un centro/sinistra che, negli ultimi 20 anni, sul terreno delle autonomie locali e sociali hanno sostanzialmente occupato posizioni di retroguardia, rincorrendo il leghismo, tranne i casi di elaborazione compiuti da Bassanini e dall’ex Presidente del Senato Nicola Mancino, uomo del dialogo, che dallo scranno dell’Assemblea di Palazzo Madama determinò l’approvazione della legge 328 del 2000 sul sistema integrato dei servizi alla persona. Legge, purtroppo tradita, che alimentò la vita dei Comuni, nella prospettiva dell’associazionismo dei servizi e dell’integrazione socio-istituzionale tra gli enti locali e le formazioni intermedie della cooperazione sociale, contribuendo allo sviluppo delle autonomie, le quali crescono per osmosi delle radici ideali e culturali, non per settarismo. “In questo momento, soffriamo insieme a Roberto Formigoni”, ha scritto CL. “Nessuna prova può cancellare la compagnia che Cristo fa alla nostra vita, consentendoci di ricominciare sempre, nell’umile certezza che tutto collabora misteriosamente al bene”. Riecheggiano in noi le parole del mandato che Giovanni Paolo II al Meeting del 1982 consegnò alla nostra giovinezza: “La domanda e la certezza di Cristo … rende capaci creare nuove forme di vita per l’uomo”, a partire da “una novità di vita nel presente”. (Don Giussani, Assago 1987). E’ questa la dimensione politica di un’esperienza intensamente umana generatrice di civiltà nella res publica, liberando energie che “rendono dinamico tutto l’assetto sociale”.

1 commento:

  1. PERCHÉ FORMIGONI DA’ FASTIDIO AL POTERE
    Una lettera a Tempi di Egisto Mercati.

    Caro direttore, “se Formigoni è dentro il carcere qualcosa deve aver fatto”. Supporre la colpevolezza di qualcuno placa l’invidia sociale e il risentimento indotto dalle narrazioni di una vita da nababbo. Mito, leggenda e realtà sono stati intrecciati così bene riuscendo a propalare l’immagine di un uomo frivolo, aduso alla bella vita e ad amicizie equivoche.

    Il buon governo della Regione Lombardia per 18 anni, la capacità di lavoro del presidente Formigoni, l’eccellenza nella sanità pubblica e privata, l’attenzione intelligente al problema della scuola facilitando famiglie non abbienti, l’ammirazione e stima da parte di governi stranieri, cozzano con la rappresentazione che i media hanno voluto costruire di una persona scomoda. Questa “scomodità” nasce dal fatto che Formigoni ha saputo coniugare potere ed efficienza, governance e bene comune e soprattutto che Formigoni ha mostrato il frutto evidente del cattolicesimo popolare nato non all’ombra dei campanili o nel chiuso delle sacristie, ma nelle lotte dentro l’Università per opporsi alla marea farneticante dei movimenti di estrema sinistra armati di spranga e di arroganza leninista.
    Non possiamo dimenticare che il post ’68 in Italia ha favorito, con l’assenso di molti, l’ascesa e poi l’egemonia della cultura comunista, gramsciana, che ha privilegiato le cattedre e alti gangli istituzionali dando l’illusione a molti che fosse in atto una rivoluzione morale e civile degli italiani (tanto auspicata da Francesco De Sanctis e proseguita da Antonio Gramsci).

    Da qui il laicismo intransigente che male ha sopportato la rinascita, combattiva e intelligente di quella presenza cattolica che nel 1970 pubblicamente si espresse in tutta Italia con uno strano nome, Comunione e liberazione, titolando i fogli iniziali. Per una prassi di liberazione dentro l’Università, terra sottomessa dai capi e capetti del movimentismo di estrema sinistra. Come dichiarò Paolo Mieli, allora direttore del Corriere della Sera, «con don Giussani e i suoi ragazzi l’Italia non fu più la stessa». E questo non si è mai sopportato. Nei salotti buoni, nei partiti, nel mondo illuminato e progressista di quella borghesia elitaria e supponente un cattolicesimo che, in parte, è diventato – per merito – classe dirigente capace, moderna, costruttore di democrazia realmente liberal-popolare.

    Formigoni, al di là dei ritratti macchiettisti alimentati dagli avversari di varia natura, ha avuto anche il phisique du rôle dell’uomo che ha carisma e quindi anche successo. Le accuse contro di lui, non comprovate da evidenze, lo hanno dipinto come un corrotto. Ma ogni atto corruttivo prevede dazione illegale di beni e di servizi a danno della collettività e comunque di altri. Nel caso specifico nessuna infrazione, di corruzione nemmeno l’ombra. Formigoni ha infastidito tutti coloro che idolatrano l’azione unica e verticistica dello Stato gestore costituendo un punto di non ritorno nell’applicazione di reale sussidiarietà.
    Non Formigoni soltanto, ma una classe dirigente capace di interpretare bisogni e istanze della società civile. In quel grido delirante del politico grillino che dice: “Giustizia è fatta”, dopo la condanna definitiva dell’ex governatore, c’è tutta la stolida soddisfazione di una vittoria ideologica. Non si capisce ancora che si è ferito gravemente lo Stato di diritto.

    Formigoni è entrato in carcere a Bollate portandosi dietro dignità e compostezza chinando la testa ad una incomprensibile sentenza. Ha raccomandato ai suoi cari e agli amici di essere forti in questo momento. E noi lo siamo.

    https://www.tempi.it/perche-formigoni-da-fastidio-al-potere/

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