A Firenze, dal 29 al 31 marzo, si è svolto il “Festival
dell’economia civile”, mettendo a confronto esperti, accademici,
operatori, imprenditori, ai fini di una più piena condivisione delle
esperienze e dei valori di questa “sfida” economico-culturale,
valorizzando le iniziative e le intraprese che prendono corpo in
tanti territori. Il territorio, infatti, è il laboratorio vivente
ove si sperimentano prassi innovative di elaborazione, di
co-progettazione, di fare insieme, cooperando. Un modo antico e,
nello stesso tempo, nuovo, di fare economia, mirando alla felicità
pubblica attraverso i valori della fiducia, della gratuità, delle
relazioni, della solidarietà che si fa fraternità: universo di
ragioni e valori capace di generare lavoro e qualità della vita. Le
“Lezioni” dell’abate Antonio Genovesi costituiscono un punto di
riferimento obbligato per l’approfondimento della filosofia che
genera economia civile. Essa nasce da un humus valoriale e, nel
contempo, crea “plusvalore”, ma i valori durano quando di
continuo si alimentano criticamente alla sorgente da cui essi
scaturiscono, evitando di precipitare nel sentimentalismo che non
regge all’urto delle circostanze storiche. Perciò, bisogna sempre
tornare all’ontologia, all’origine della matrice umanistica che
caratterizza questa modalità di fare economia. Nella teorizzazione
genovesiana centrale è l’universo umanista-filosofico di
Giambattista Vico, la cui “Scienza nuova” getta luce sul
costituirsi del “mondo civile”, “raccontando” la
genesi del processo storico di civilizzazione, il sorgere dei primi
accenni della novità umana. Tra il bagliore dei fulmini, nello
stupore e nella paura per gli accadimenti naturali, il “selvaggio”
intuisce una Realtà superiore: “.. che ne’ disperati soccorsi
della natura anco essi disiderano, esservi una cosa alla natura
superiore, che gli salvasse …. e sì dentro i nembi di quelle prime
tempeste, al barlume di que’ lampi videro questo gran raggio di
verità ...” (Sn, Della sapienza poetica, ed. 1730, a cura di Paolo
Cristofolini e Manuela Sanna). “Uomini crudi, fieri, ed immani”
si affidano a questa Realtà provvidente e, nello stesso tempo, danno
inizio ad una “fantastica” ed “ingegnosa” attività
“poetica/poietica”. “Poeti, che lo stesso in greco suona che
criatori” (Sn ed.1744 a cura di P. Rossi; ed. di A. Battisini):
“con uno più sublime lavoro …. diedero sensi, e passioni a
corpi” (Sn, Della sapienza poetica, 1730), interpretando e
trasformando la realtà; …. “furono necessitati di dar fuoco
alle selve, e con molta lunga dura fatiga ridurle alla coltura, e
seminarvi il frumento”. (Sn, Della sapienza poetica, 1730). Tutto
avviene in forma rozza, ma è abbrivo dell’umana avventura: la
scossa violenta degli eventi naturali mette in moto il corpo bestiale
del selvaggio, il quale gradualmente scopre in sé il suo fattore
umano, la vis veri: “cominciò a menar fuori in un certo modo la
forma dell’anima umana, ch’era affatto seppolta dalla materia ne’
vasti corpi de’ giganti” (Sn Dell’iconomia poetica, 1730),
modificando la sua mente, allargando, cioè, la capacità di
intendere e comprendere. Così, comincia a prendere forma la
dimensione umana, civile dell’esistente, ossia la natura socievole
degli “uomini crudi”. E’ la discoverta dell’umano: il primo
germoglio nella mente dei “semina veri”, delle “faville di
Dio”. E’ il senso profondo del “verum ipsum factum”:
conoscenza della storia e conoscenza dell’agente che, con la spinta
incoercibile sorpresa dentro di sé, dà inizio (di inizio in inizio)
alla storia. Giuseppe Capograssi di questo inizio ha dato una
rappresentazione mirabile: “Vico è il poeta dell’alba. Il giorno
fatto, il giorno pieno, tutto ciò che è dispiegato non lo
interessa. Lo interessa il nascere del primo filo di luce: il
pensiero umano nascente”. (Capograssi, Opere, Vol. IV). Capograssi,
come Vico, è affascinato dall’incipit dell’umana avventura, dal
sorgere del bagliore iniziale di pensiero vero, dal primo filo di
luce che determina il passaggio dallo stato ferino a quello umano,
quando l’io rozzo e bestione comincia ad intendere in un certo modo
il reale, così come si presenta agli occhi e all’esperienza,
generando rapporti con l’Altro e con gli altri. In questa
“modificazione della mente”, in questa crescente capacità di
comprendere e, quindi, di stabilire nessi e rapporti con Tutto sta
l’avvenimento di un “fatto” nuovo: l’inizio della civiltà,
il “tremolar” dell’io, il brivido del sé, l’avverarsi
nell’albore della natura umana; natura socievole i cui moti
profondi sono da disvelare e riscoprire criticamente in ogni tornante
della storia, tra decadimenti ed avanzamenti, ricostruendo
continuamente i legami costitutivi delle “Nazioni civili”. La
“discoverta dell’umano” è la sfida decisiva in ogni passaggio
storico; una lotta che non avviene una volta per tutte. In ogni
momento della vita di un popolo, in ogni momento della vita della
persona, si tratta di riconquistare il primo filo del pensare
veramente umano, il fiotto sorgivo permanente da cui
scaturisce l’energia creativa degna dell’uomo, cioè
corrispondente alla natura del proprio Essere. Al primo filo
dell’alba umana, quando la persona si ridesta nella coscienza di
sè, ci introduce l’impareggiabile riflessione sul senso religioso
di don Giussani, accompagnandoci alla comprensione dell’esperienza
elementare di ciascun uomo, alla “discoverta” dell’umano che è
in noi, da cui irrompe un’intensa, appassionata, indomita opera
poetica-poietica di trasfigurazione della realtà. “Supponete di
nascere, di uscire dal ventre di vostra madre all’età che avete in
questo momento, nel senso di sviluppo e di coscienza così come vi è
possibile averli adesso. Quale sarebbe il primo, l’assolutamente
primo sentimento, cioè il primo fattore della reazione di fronte al
reale? Se io spalancasi per la prima volta gli occhi in questo
istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla
meraviglia e dallo stupore delle cose come di una “presenza”.
Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene
espressa nel vocabolario corrente dalla parola “cosa”. Le cose!
Che “cosa”! Il che è una versione concreta e, se volete, banale,
della parola “essere”. L’essere: non come entità astratta, ma
come presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza
che mi si impone. …. Lo stupore, la meraviglia di questa realtà
che mi si impone, di questa presenza che mi investe è all’origine
del risveglio dell’umana coscienza”. (L. Giussani, Il Senso
Religioso, cap. X). E’ uno sguardo nuovo su di sé e su tutta la
realtà, grazie alla presenza di persone umanamente per noi
significative. “Una Presenza dentro sguardo” muove “l’energia
e la vibrazione della ragione”, desta la persona muovendola
all’azione nella realtà, nel tentativo operoso di plasmare le
“cose” secondo il suo cuore, sino alla creazione di forme nuove
di lavoro e di economia, proseguendo, in un certo qual modo, la
costruzione del “mondo civile”. Costruzione che si identifica con
il risveglio dell’umana coscienza, attraverso un’attrattiva che
ci colpisce, risvegliando e rigenerando la tensione al bello, al vero
al giusto, per la personale e comune felicità.

Caro Aniello preciso e puntuale. Un pò difficile, ma preparato,erudito,sensibile e comprensibile. Grazie del magnifico contributo alla formazione sociale. Ciao,prof Enzo Stellato.
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