lunedì 17 agosto 2020

Il lavoro sublime

L'ovile, chiaro di luna. Millet (1860)
Il titolo del Meeting di Rimini “Privi di meraviglia restiamo sordi al sublime”, frase del filosofo ebreo polacco Heschel, ci offre l’occasione di ripassare un passo famosissimo della Scienza Nuova di Giambattista Vico, proseguendo così il nostro itinerario di pensiero alle sorgenti della Scuola meridiana di economia civile. Nel passaggio dalla prestoria alla storia, lungo la frontiera del farsi uomo dell’uomo, si dipana nell’Opera vichiana la documentazione del nascente processo di umanizzazione dell’individuo; processo in cui il moto propulsivo è la “sublimità del sentire”: forza creatrice di idee (mito) e cose, trasformando l’ingens sylva in una “realtà” di significati. “In quei primi tempi si avevano a ritrovare tutte le cose necessarie alla vita umana, e il ritrovare è proprietà dell’ingegno.” (S. N. 1725, pag. 550). Riportiamo il famosissimo passo dalla Scienza Nuova, edizione 1730, Libro secondo, Della Sapienza Poetica: “Adunque la sapienza Poetica dovette cominciare da una Metafisica, non ragionata ed astratta, qual’or’ è quella degli Addottrinati, ma sentita ed immaginata, quale dovett’essere di tali primi uomini, siccome quelli, ch’erano di niuno raziocinio, tutti robusti sensi, e vigorosissime fantasie […]. Questa fu la loro medesima Poesia, e la Poesia in essi fu una Facultà loro connaturale, perché erano di tali sensi e sì fatte fantasie naturalmente forniti, nata da ignoranza di cagioni, madre di meraviglia di tutte le cose […] la qual Poesia incominciò in essi divina: perché nello stesso tempo, che essi immaginavano le cagioni delle cose, che sentivano ed ammiravano, davano loro l’essere di sostanze dalla lor propria idea, e che sì le criavano, con infinita differenza però dal criar, che fa Iddio; perocchè Iddio nel suo purissimo intendimento conosce, e conoscendole, cria le cose; essi per la loro robusta ignoranza il facevan in forza d’una corpo lentissima fantasia; e perch’era corpolentissima, il facevano con una meravigliosa sublimità, tale e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi, che fingendo le si creavano, onde furon detti Poeti, che lo stesso in greco suona, dè criatori; […] Di più perché l’huomo è naturalmente portato a unirsi a Dio, dond’ella viene, ch’è l’vero uno […] le particolari cose, ch’essi sentivano, e immaginavano, si conformassero; […] generi fantastici, o unità immaginarie, o fussero finti modelli, a’ quali riducevano tutte le cose particolari, che sentivano, o immaginavano, o essi stessi facevano: e ne restavano detti con somma latina eleganza genus in significato di forma, o guisa, o maniera, o di cosa, che si assomiglia, e ressembra; e tal’acconcezza d’assembramento delle cose fatte alle loro idee, o modelli fu detta anco species in signification di bellezza. (Scienza Nuova, 1730, pagg, 503, 504).
Tale “acconcezza d’assembramento”, ossia la corrispondenza delle cose fatte ai loro modelli, è la bellezza: il lavoro sublime da quando per la prima volta quegli uomini dai corpi giganteschi avvertirono il cielo; “e sì incominciarono a celebrare la connaturale curiosità, ch’è figliuola dell’Ignoranza, e madre della Scienza, la qual partorisce nell’aprire, che fa dalla mente dell’huomo la Maraviglia … e tutti anziosi nella ricerca, domandano, che quella cosa si voglia significare”, iniziando un processo di conoscenza sino all’infinito, “perché la mente umana si diletta dell’uniforme”, dell’universale.
E’ il sentire meraviglioso, di fronte al cielo stellato o dinanzi ad un particolare della realtà, il fulcro che, sin dai primordi dell’umano e della storia, ha mosso e commosso l’io nel suo cammino storico, maturando la sua coscienza; è questo “sentire” che proietta l’io, mosso, scosso, commosso dal richiamo delle “cose”, verso il significato universale, plasmando tutto alla luce o all’ombra del Significato presentito. Il sentire sublime porta al lavoro sublime, sino al vertice della ragione, cioè alla domanda radicale sul significato di sé.

Spesso quand’io ti miro
Star seduta così muta in sul deserto piano,
Che, in suo giro lontano, al ciel confina,
Ovver con la mia greggia
Seguirmi viaggiando a mano a mano;
E quando miro in ciel arder le stelle;
Dico fra me pensando:
A che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
Infinito seren? Che vuol dire questa
Solitudine immensa? Ed io che sono?”
(G. Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia)

Nel sentire pienamente umano s’impone l’infinitudine dell’io, la “nostalgia del totalmente altro”: il bisogno dell’Altro, dell’Infinito, di una Sorgente oltre, di una Forza oltre, oltre sé, più di sé, eccedente sé, infinitamente più grande di sé; per essere pienamente sé! Dunque, il bisogno di una compagnia, di un rapporto profondo io-tu, di un sentire comune.
Che vuol dire questo Bisogno immenso? “Ed io che sono?”
Da questa domanda ineludibile, pro-vocata da frangenti della vita e della realtà, scaturisce la forza poietica di trasformazione: un soggetto unico ed irripetibile protagonista nella storia; non cittadino anonimo della città umana in balia delle forze del potere.
Un amico del Meeting, di ispirazione vichiana, Sergio Marchionne, dedicò lo stabilimento di Pomigliano d’Arco al “filosofo dell’umanità”, cantore dell’ingegno. “La fantasia, che è l’occhio dell’ingegno”: è affermazione architrave dell’Opera di Giambattista Vico. Per affrontare le nuove sfide del lavoro, nella società globalizzata, occorre un surplus di fantasia: un soggetto che metta in gioco tutte le sue risorse umane nella trama di una compagnia, in cui il sentire sublime, proprio della natura umana, sia continuamente sostenuto e condiviso. La condivisione di questo impeto originario del cuore è più forte di qualsiasi interesse particolare ed attraversa, rendendolo più vero, ogni interesse particolare. Da qui un’amicizia operativa nell’avventura della storia, nel dramma della lotta quotidiana, nelle contraddizioni dell’esistente storico. Una condivisione più forte, più tenace di qualsiasi sindacalità; in verità, una sindacalità nuova, vera, profonda, costruttiva. Una realtà sociale nuova: l’appartenenza ad un popolo. Marchionne veniva al Meeting sicuramente per rintracciare l’Origine del Fatto che metteva, che mette all’opera tantissimi giovani, costruendo nella gratuità, per il fascino del Fatto incontrato, seguendo la “connaturale curiosità”.
Dietro la parola “io” c’è oggi una grande confusione, eppure la comprensione di cosa è il mio soggetto è il primo interesse. Nulla è così affascinante come la scoperta delle reali dimensioni del proprio io. E nulla è così commovente come il fatto che Dio si sia fatto uomo per dare l’aiuto definitivo, per accompagnare con discrezione, con tenerezza e potenza il cammino faticoso di ognuno alla ricerca del proprio volto umano. (Don Giussani, Alla ricerca del volto umano, Bur).
L’Infinito presente nelle sembianze di una compagnia, abbracciando l’infinitudine dell’io, rendendosi presente in essa, attraverso di essa, per ridestare continuamente il cuore alla sublimità del sentire e rinnovare, secondo questo sentire, tutte le cose. “Solo un io può dire “tu” all’infinito che genera – genera! Qualcosa di simile a sé, rende sé tradizione, porta ancora sé, ripete sé e così si comunica e nasce un popolo. E’ questo il soggetto nuovo da cui nasce un popolo. Questo soggetto nuovo è l’inizio, l’origine, il generatore – padre e madre – di una società nuova, di una realtà sociale nuova.” (Luigi Giussani, Un avvenimento nella vita dell’uomo, Bur, pag. 157).

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