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| Charles Péguy (1873-1914) |
In queste settimane, la vicenda
pubblica dei cattolici nel nostro Paese sta ponendo nuovi interrogativi ed
ulteriori sfide: in verità, il dibattito in atto è occasione per una rinnovata e
più utile presenza. Per l’educazione ricevuta secondo la forma del carisma di
don Giussani, nella storia e nella compagnia di Comunione e Liberazione, i dati
della realtà sono provocazione per un permanente lavoro di immedesimazione, ossia
scoperta sempre più matura dell’origine
della propria avventura umana. Il continuo paragone con la realtà rende più
evidente la “politicità” del carisma che abbiamo incontrato e, quindi, la
storicità della comunità cristiana nel mondo. Non a caso, Augusto Del Noce sottolineava
il “carattere temporale” della teologia giussaniana. Don Giussani stesso
parlando del Papa “venuto da lontano”,
in occasione del XXV di Pontificato, scrisse: “Il cristianesimo di
Giovanni Paolo II riflette tutta l’essenza “secolaresca” del messaggio cristiano, vale a dire un’identità tra umanità
e fede cristiana.” Politicità, dunque; ovvero l’impatto della fede sulle
circostanze, sulle vicende che si dipanano nella vita personale e sociale,
rendendo le stesse umanamente più vere. Il “di più umano” che si rende
evidente, trasparente nell’esperienza documenta la ragionevolezza della fede. “L’uomo
che vive, come ci testimonia il Papa, trova la sua razionalità
nell’identificazione del cristianesimo con l’umano: è l’uomo realizzato”.
(Mons. Luigi Giussani nel XXV di G. P. II). Questa modalità di dialogo tra fede
e ragione rende umanamente più attraente e corrispondente tutta l’esistenza
secondo la totalità dei suoi fattori, incidendo positivamente nella struttura
sociale in cui le persone quotidianamente vivono ed operano. Da ciò la “politicità”
del carisma: “qualcosa” di assolutamente nuovo! E’ ciò che il grande Peguy
aveva poeticamente intuito, ma non visto. A riguardo, c’è un dialogo
emblematico tra Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier: i due discorrevano sulla
“ossessione” (l’espressione è di Maritain) di “vittoria temporale” in Peguy,
mentre per il cristiano la vittoria si colloca sul piano spirituale: “Peguy non
capirebbe San Giovanni della Croce”. Ci piace immaginare, tra i due grandi
pensatori francesi, la presenza di don Giussani che, in un certo senso, ribalta
criteri e giudizi. “Vittoria temporale”, non egemonia politica o culturale, bensì
realizzazione autentica del proprio essere in un popolo protagonista nel tempo,
nella storia, nella realtà, nella città, contribuendo all’affermazione di una
sempre più evidente civiltà dell’essere e dell’intrapresa, il cui cardine è la
libertas ecclesiae e, quindi, la libertà pubblica per ogni fede e per ogni
uomo, come autorevolmente ribadisce il Magistero di Benedetto XVI. Lungo questa
frontiera, Papa Benedetto riannoda, con straordinaria forza di argomentazione, il
rapporto fede-ragione: “Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di
autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità
come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare
come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle
idee”. (Allocuzione per l’incontro con l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza , 15 gennaio
2008). Dunque, “vittoria temporale” come esperienza intensamente umana caratterizzante
la vita del popolo cristiano: popolo “sui generis”, secondo la mirabile espressione
di Paolo VI. Il Professore Massimo Borghesi su “Il Sussidiario”, per rendere
ragione della pluralità di scelta politica dei cattolici, ha opportunamente
richiamato la formula sintetica maritainiana “distinguere per unire”: distinguere
tra l’agire in quanto cristiani e
l’agire come cristiani. Tuttavia,
nella realtà comune che viviamo, abbiamo percepito e percepiamo più simpatetico
l’accento sull’unità della persona in una comunione vissuta, per comprendere,
valorizzare e vivere più intensamente tutte le dimensioni della realtà, secondo
le diverse articolazioni e le distinte responsabilità. L’immanenza/appartenenza
a questa comunione (non “comunitarismo” bloccato ed ideologico), ontologicamente
riconosciuta e socialmente identificabile come popolo, punto sorgivo del
giudizio, salva, valorizza e potenzia la struttura dell’essere in azione, sia
nell’impegno comune, sia nel libero rischio a livello personale. In ciò sta la
genialità metodologica di una proposta che, rinnovando in modo fecondo la
sintesi tra ragione e fede nell’esperienza, afferma un “soggetto” comunitario e
personale “sui generis”, “senza patria”, irriducibile agli schemi precostituiti,
maturo, aperto e consapevole di sè nella storia. E’ un lungo, mai esaurito,
itinerario di immedesimazione con uno sguardo sul reale che tocca
persuasivamente il cuore: un tocco che, in modo umanissimo, si rinnova e che
viene prima di ogni considerazione morale o religiosa su di sé e sull’assetto
sociale, rendendo possibile la ripresa continua dai propri errori e limiti,
partecipando con decisione di giudizio e di operatività, nonché con “ironia”,
all’opera di tutti, oltre il “bipolarismo manicheo”. All’osservatore attento
non sfuggirà che tale soggetto (metodo)
costituisce un patrimonio per la società, una strada sicura orientata al bene comune, per la pace sociale
e la maggiore liberta dei gruppi e delle persone.

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