sabato 26 gennaio 2013

La politicità di un popolo

Charles Péguy
(1873-1914)

In queste settimane, la vicenda pubblica dei cattolici nel nostro Paese sta ponendo nuovi interrogativi ed ulteriori sfide: in verità, il dibattito in atto è occasione per una rinnovata e più utile presenza. Per l’educazione ricevuta secondo la forma del carisma di don Giussani, nella storia e nella compagnia di Comunione e Liberazione, i dati della realtà sono provocazione per un permanente lavoro di immedesimazione, ossia  scoperta sempre più matura dell’origine della propria avventura umana. Il continuo paragone con la realtà rende più evidente la “politicità” del carisma che abbiamo incontrato e, quindi, la storicità della comunità cristiana nel mondo. Non a caso, Augusto Del Noce sottolineava il “carattere temporale” della teologia giussaniana. Don Giussani stesso parlando del Papa “venuto da lontano”,  in occasione del XXV di Pontificato, scrisse: “Il cristianesimo di Giovanni Paolo II riflette tutta l’essenza “secolaresca” del messaggio cristiano, vale a dire un’identità tra umanità e fede cristiana.” Politicità, dunque; ovvero l’impatto della fede sulle circostanze, sulle vicende che si dipanano nella vita personale e sociale, rendendo le stesse umanamente più vere. Il “di più umano” che si rende evidente, trasparente nell’esperienza documenta la ragionevolezza della fede. “L’uomo che vive, come ci testimonia il Papa, trova la sua razionalità nell’identificazione del cristianesimo con l’umano: è l’uomo realizzato”. (Mons. Luigi Giussani nel XXV di G. P. II). Questa modalità di dialogo tra fede e ragione rende umanamente più attraente e corrispondente tutta l’esistenza secondo la totalità dei suoi fattori, incidendo positivamente nella struttura sociale in cui le persone quotidianamente vivono ed operano. Da ciò la “politicità” del carisma: “qualcosa” di assolutamente nuovo! E’ ciò che il grande Peguy aveva poeticamente intuito, ma non visto. A riguardo, c’è un dialogo emblematico tra Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier: i due discorrevano sulla “ossessione” (l’espressione è di Maritain) di “vittoria temporale” in Peguy, mentre per il cristiano la vittoria si colloca sul piano spirituale: “Peguy non capirebbe San Giovanni della Croce”. Ci piace immaginare, tra i due grandi pensatori francesi, la presenza di don Giussani che, in un certo senso, ribalta criteri e giudizi. “Vittoria temporale”, non egemonia politica o culturale, bensì realizzazione autentica del proprio essere in un popolo protagonista nel tempo, nella storia, nella realtà, nella città, contribuendo all’affermazione di una sempre più evidente civiltà dell’essere e dell’intrapresa, il cui cardine è la libertas ecclesiae e, quindi, la libertà pubblica per ogni fede e per ogni uomo, come autorevolmente ribadisce il Magistero di Benedetto XVI. Lungo questa frontiera, Papa Benedetto riannoda, con straordinaria forza di argomentazione, il rapporto fede-ragione: “Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee”. (Allocuzione per l’incontro con l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza, 15 gennaio 2008). Dunque, “vittoria temporale” come esperienza intensamente umana caratterizzante la vita del popolo cristiano: popolo “sui generis”, secondo la mirabile espressione di Paolo VI. Il Professore Massimo Borghesi su “Il Sussidiario”, per rendere ragione della pluralità di scelta politica dei cattolici, ha opportunamente richiamato la formula sintetica maritainiana “distinguere per unire”: distinguere tra l’agire in quanto cristiani e l’agire come cristiani. Tuttavia, nella realtà comune che viviamo, abbiamo percepito e percepiamo più simpatetico l’accento sull’unità della persona in una comunione vissuta, per comprendere, valorizzare e vivere più intensamente tutte le dimensioni della realtà, secondo le diverse articolazioni e le distinte responsabilità. L’immanenza/appartenenza a questa comunione (non “comunitarismo” bloccato ed ideologico), ontologicamente riconosciuta e socialmente identificabile come popolo, punto sorgivo del giudizio, salva, valorizza e potenzia la struttura dell’essere in azione, sia nell’impegno comune, sia nel libero rischio a livello personale. In ciò sta la genialità metodologica di una proposta che, rinnovando in modo fecondo la sintesi tra ragione e fede nell’esperienza, afferma un “soggetto” comunitario e personale “sui generis”, “senza patria”, irriducibile agli schemi precostituiti, maturo, aperto e consapevole di sè nella storia. E’ un lungo, mai esaurito, itinerario di immedesimazione con uno sguardo sul reale che tocca persuasivamente il cuore: un tocco che, in modo umanissimo, si rinnova e che viene prima di ogni considerazione morale o religiosa su di sé e sull’assetto sociale, rendendo possibile la ripresa continua dai propri errori e limiti, partecipando con decisione di giudizio e di operatività, nonché con “ironia”, all’opera di tutti, oltre il “bipolarismo manicheo”. All’osservatore attento non sfuggirà  che tale soggetto (metodo) costituisce un patrimonio per la società, una strada sicura  orientata al bene comune, per la pace sociale e la maggiore liberta dei gruppi e delle persone.                 

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