Nel
surriscaldamento climatico della campagna referendaria, tra sofismi ideologici
e tifoserie di calcio, insulti ed allarmismi, perdono evidenza i criteri
elementari con cui giudicare una riforma di natura costituzionale. Non è
questione di esperti, che solitamente complicano le cose, bensì di buon senso e
semplicità di giudizio. Proviamo a fare qualche passo in questa direzione. L’art.
1 (“Funzioni delle Camere”) del testo di riforma costituzionale sostituisce l’art.
55 della Costituzione nel modo seguente: “……. La Camera dei deputati è titolare
del rapporto di fiducia con il governo ed esercita la funzione di indirizzo
politico, la funzione legislativa e quella di controllo dell’operato del
governo”. Quale funzione di controllo potrà mai esercitare una Camera eletta secondo
modalità abnormi e squilibranti? Il partito vincente, pur con un modesto 20 o
25% al secondo turno, non prende moderatamente un premio di governabilità; prende
tutta intera la maggioranza assoluta dei seggi (55%). Quale funzione di
controllo potrà mai esercitare una Camera che altera il consenso e la
rappresentanza popolare, con l’aggravante della sua composizione complessiva
(circa il 50%) costituita da capilista bloccati? No! Non possumus! Non possiamo
accettare un monocameralismo squilibrato, ovvero a senso unico filogovernativo,
svuotando di fatto la funzione di controllo sul governo da parte della Camera
medesima. Una buona riforma costituzionale, secondo i principi base del
costituzionalismo e le evidenze del buon senso, limita, diversifica e bilancia
le funzioni, non le assorbe. Si tratta di evidenza primaria ed elementare della
democrazia. Perciò, considerando il monocameralismo sbilanciato della riforma, fa
una certa impressione l’art. 17 della riforma che sostituisce l’art. 78 della
Costituzione nel seguente modo: “La Camera dei deputati delibera a maggioranza
assoluta lo stato di guerra e conferisce al governo i poteri necessari”. Fa
impressione, perché il monocameralismo squilibrato è la strada più facile e sicura
per i cosiddetti “populismi” di turno. La questione è particolarmente delicata,
considerando che le Costituzioni regolano la vita associata per decenni e la
l’intima ragione delle stesse è evitare, nel corso degli anni, a lungo andare,
avventure senza ritorno. No! Non possiamo accettare l’abbassamento degli argini
a presidio della democrazia. La “democrazia decidente” rafforza la capacità di
potere decisionale, elevando, al contempo, gli argini di contrappeso. Come
abbiamo evidenziato nel precedente editoriale, la riforma costituzionale del
Senato è in stretta relazione con la legge elettorale con la quale si elegge la
Camera con funzioni di controllo sul governo. Non basta promettere, alla
vigilia del voto referendario, il cambiamento della suddetta legge, con
(eventuali) ritocchi che non modificano la sua struttura distorsiva. All’art. 2
del testo di cui sopra, (“Composizione ed elezione del Senato della
Repubblica”) il disagio cresce. In esso si afferma che l’art. 57 della
Costituzione è sostituito dal seguente: “….. I Consigli regionali e i Consigli
delle Province autonome di Trento e Bolzano eleggono, con metodo proporzionale,
i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i
Sindaci dei Comuni dei rispettivi territori”. Nell’articolato non c’è alcun
riferimento alla designazione da parte dell’elettore, sebbene tale principio
sia stato continuamente richiamato nel corso della discussione al Senato. Il
“piccolo principe”, anche in questo caso, ha promesso, ancora una volta dopo l’esito
del referendum, l’approvazione (ad oggi, dunque, mancante) di una normativa che
regoli designazione (se ci sarà) ed elezione. Pertanto, in caso di affermazione
del sì, in base alla lettera ed allo spirito della riforma, i senatori saranno
eletti, all’interno dei Consigli Regionali, secondo il metodo spartitorio tra i
consiglieri medesimi. No! Non possumus. Non possiamo accettare la spoliazione a
spicchi del diritto alla libera e personale espressione del voto, rimandando ad
altri, con delega in bianco, la responsabilità personale. Perciò, in questo
referendum è in gioco molto più di un sì o di un no, pur non trascurando le
ragioni ed i “dettagli” per i quali e sui quali siamo chiamati a votare. In
ogni tornante della storia di un popolo, il
lavoro fondamentale è riconoscere le evidenze elementari dell’Essere persona e
dell’Essere società. Il riconoscimento delle evidenze prime che regolano la
vita associata, pur nelle forme costituzionali, sempre riformande, è parte
integrante di un compito nella storia. Per questo motivo ci interessa il
referendum (“Il nostro concetto fi fede ha un nesso immediato con la res
publica”), nella consapevolezza che il lavoro culturale da svolgere va ben
oltre l’esito del referendum e che la consultazione referendaria non è
questione di vita o di morte, ma solo un’occasione di partecipazione gioiosa, critica
ed appassionata alla vita della polis.

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