sabato 30 dicembre 2017

Processo alla politica



27 dicembre 1947: giorno di firma della Costituzione italiana. Vale la pena svolgere qualche appunto di riflessione, per sottolineare il metodo della ricostruzione democratica del Paese, allorchè culture ed esperienze diverse seppero convergere, alimentando un dibattito politico-culturale alto. Più volte, da più parti, è stata celebrata tale modalità di lavoro, intuendone la portata universale e pertinente alle esigenze ed alle problematiche oggi incalzanti. Il metodo non è un “manuale”; è l’ipotesi di lavoro, nel senso scientifico, da perseguire e verificare, nel contesto dato, alla luce della legge fondamentale: il bene comune. La filosofia politica scriveva Antonio Rosmini Serbatimette un’inviolabile legge a tutti i governi, quella legge onde li obbliga di volgere tutto ciò che fanno, al vero bene umano: non perché il fine della società civile sia il bene umano in tutta la sua ampiezza; ma perché, qualunque sia quella porzione di bene a cui ella è ordinata, questa porzione di bene dee sempre appartenere al bene dell’uomo.” Questa legge inviolabile fu il perno su cui ruotarono i lavori costituenti. Ora, dando uno sguardo veloce al quadro politico entro cui si svolge la dialettica nel nostro Paese, appare evidente che il personale partitico odierno non ha nulla a che vedere con le personalità e le formazioni politiche che diedero vita alla fase costituente; ma abbandonarsi allo scetticismo storico è totalmente irragionevole. Non ci convince neppure il detto montanelliano del “turarsi il naso” e andare a votare. Bisogna essere realisti, cogliendo, alla luce della ragione, il punto di costruttività. Il 4 dicembre dell’anno scorso il popolo italiano ha rigettato una riforma costituzionale scriteriata che avrebbe consegnato il Paese nelle mani di un solo capo-partito, espressione della maggiore minoranza. Con tale rigetto il popolo ha ridato centralità al Parlamento. La via parlamentare è certamente disseminata di camaleonti e di crisi, ma è pur sempre il metodo che costringe a ricercare integrazioni e collaborazioni,  mitigando, in un certo qual modo, lo scontro muro contro muro, che la vicenda della cosiddetta seconda Repubblica ha dimostrato ampiamente essere inutile e dannoso per il Paese. E’, altresì, la strada maestra che limita il delirio di onnipotenza di cui è stata ed è espressione la politica del bipolarismo manicheo e dei cerchi magici. Frenare, mitigare, moderare questo delirio è obiettivo di valenza storica e strategica, in ogni tornante della vita di una Nazione. Pur nelle ristrettezze di una legge elettorale, il porcellum rosato, che non fa onore ai parlamentari che l’hanno approvata, le ragioni della cittadinanza partecipativa devono prevalere sul disimpegno e sulla rabbia, applicando il criterio del discernimento nella scelta della rappresentanza. Un primo criterio di orientamento potrebbe essere la verifica di rappresentanze territoriali che hanno già dato prova di passione o disposizione ideale e di buon lavoro amministrativo. In ogni caso, noi continueremo a percorrere la lunga strada tracciata dai Padri Costituenti con la definizione dell’articolo 2 della Costituzione: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale”. Le formazioni intermedie rappresentano un ricchissimo patrimonio umano, genius loci, unico in Europa, da cui ripartire e riattivare il processo democratico, ivi compresi, quali momenti qualificanti dello stesso, i beni ed i valori della democrazia economica e dell’economia civile. I corpi intermedi sviluppano forme sempre nuove di amicizia politica, nel senso del protagonismo nella società delle persone e dei gruppi. Essi nascono nel cuore stesso della persona, il cui il punto sorgivo è il desiderio, che muove all’opera, plasmando la realtà, per l’attrattiva di una vita sociale umanamente significativa e degna di essere vissuta dentro i bisogni ed i problemi. Ha scritto don Giussani: “Il desiderio è l’emblema della libertà… Una cultura della responsabilità deve mantenere vivo quel desiderio originale dell’uomo da cui scaturiscono desideri e valori: il rapporto con l’Infinito che rende la persona soggetto vero ed attivo della storia.” In forza di ciò,  gli uomini sono spinti ininterrottamente ad immaginare e concretizzare risposte operative, pur provvisorie, ai loro bisogni. Su questo terreno siamo e saremo impegnati, contribuendo a ritessere la naturale politicità dell’esperienza umana, fondamento della polis, concorrendo, così, a riqualificare, nel “conversar pubblico”, secondo trame amicali, il tessuto democratico del Paese. In ciò sta la nostra politica, intendendo per essa la “forma più esigente di carità” e “la forma più compiuta di cultura”. La valorizzazione della naturale politicità, sia dal punto di vista della quotidiana manutenzione delle reti sociali in un territorio, sia sotto il profilo della Dottrina, è la Costituente Permanente degli uomini e delle donne di buona volontà votati al bene comune.  

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