sabato 27 luglio 2019

Economia del dono, risorsa dell’umano

















Dopo aver evidenziato, nella prima parte di questo saggio sulla Caritas in veritate, la valorizzazione dei soggetti protagonisti di economia del dono, ricostruendone lo “spessore ontologico”, ci soffermiamo nel prosieguo della riflessione sulla questione della tecnica. Nell’enciclica è tema fondamentale, alla luce del percorso di rivalutazione del significato dell’agire dal punto di vista economico, nonché in considerazione delle potenzialità di sviluppo e delle derive tecnocratiche legate al progresso tecnologico. Il punto di vista che scegliamo nella presente trattazione è la “discoverta” dell’umano, del senso autentico del fare, cioè corrispondente alla natura dell’io, onde contribuire a generare un soggetto impegnato lealmente nella realtà e, quindi, suscitatore e creatore di sempre nuove possibilità ed opportunità di lavoro. E’ la sfida che appartiene soprattutto ai giovani nella costruzione di una fase inedita della storia del lavoro e della civiltà, esplorando le frontiere della robotica, dell’intelligenza artificiale, delle biotecnologie: frontiere che attraversano trasversalmente tutti i campi del vivere, dalla medicina alle neuroscienze, dalla politica alla democrazia, dall’economia al lavoro, sino a determinare non solo le modalità di conoscenza della realtà, ma anche e soprattutto le facoltà di sentire, percepire e concepire se stessi. La tecnica non si configura semplicemente come l’insieme di strumenti con cui l’uomo domina la natura, accrescendo le possibilità umane. E’ la scoperta dell’energia della natura (tema caro ad Heidegger) e del suo utilizzo. Più specificamente e profondamente è la scoperta dell’energia umana applicata alla realtà: il fenomeno umano del potere, come evidenziato da Romano Guardini, Autore particolarmente caro a Papa Benedetto, e come ripreso da don Giussani nell’intervento al Congresso della DC lombarda ad Assago nel 1987. “Il problema dello sviluppo oggi è strettamente congiunto con il progresso tecnologico, con le sue strabilianti applicazioni in campo biologico”. (C. in v., par. 69). Mediante la tecnica, l’uomo conferma e rafforza la sua umanità, rendendo più vero se stesso e più umana la fatica attraverso cui trasfigura la realtà. E’ l’opera della sua genialità, cioè “un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo”: espressione dell’agire umano oggettivo (Giovanni Paolo II, Laborem exercens), la cui origine e ragion d’essere sta nell’elemento soggettivo, ossia l’uomo che opera, esprimendo la sua vocazione nel ed attraverso il lavoro. (C. in v., par. 69). “Per questo la tecnica non è solo mai tecnica. Essa manifesta l’uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo, esprime la tensione dell’animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali. (Caritas in v., par. 69). “A partire dal fascino che la tecnica esercita sull’essere umano, si deve recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell’ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all’appello dell’essere, a cominciare dall’essere che siamo noi stessi”. (C. in v. , par. 70). Nell’attuale momento storico, il dramma dell’umana libertà si gioca nel riguadagnare il senso dell’essere nell’azione, incrementando, nell’esperienza, il profilo umano della persona mentre opera, superando, quindi, continuamente “l’ebbrezza dell’autonomia”. “Lo sviluppo tecnologico può indurre l’idea dell’autosufficienza della tecnica quando l’uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire. E’ per questo che la tecnica assume un volto ambiguo. Nata dalla creatività umana quale strumento della libertà della persona, essa può essere intesa come elemento di libertà assoluta, quella libertà che vuole prescindere dai limiti che le cose portano in sé. Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un apriori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità. In tal caso, tutti conosceremmo, valuteremmo e decideremmo le situazioni della nostra vita all’interno di un orizzonte culturale tecnocratico a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai trovare un senso che non sia da noi prodotto. (C. in v., par. 70). “Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnica e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale”. (C. in v., par. 74). “La mentalità tecnicistica (fa) coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato. Infatti, il vero sviluppo non consiste primariamente nel fare. Chiave dello sviluppo è un’intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pienamente umano del fare dell’uomo, nell’orizzonte di senso della persona presa nella globalità del suo essere”. C. in v., par. 70). Cogliere questo senso significa sostenere e favorire esperienze di creatività e di solidarietà nel cuore dello sviluppo tecnologico, valorizzando e promuovendo l’imprenditorialità come creazione di opportunità e di condivisione dei talenti personali, con particolare attenzione alla cura dell’ecologia umana. Intendiamo rivolgere l’attenzione a questo aspetto soggettivo di originale imprenditorialità, registrando le crescenti esperienze giovanili in atto: soggetti d’intrapresa che evidenziano lo spessore civile del fenomeno umano-economico nella società dell’informazione e delle tecnologie avanzate. Appare evidente, ma non assolutamente scontato, che uno Stato democratico, per salvaguardare la sua natura e la sua missione, debba concentrare le sue politiche sussidiarie e solidali sui livelli della formazione e dell’innovazione, incoraggiando, valorizzando, promuovendo ciò che nasce dalla “costituzione civile” delle società. E’ questa la “battaglia” politica centrale, promuovendo costantemente processi di democrazia economica. In questo orizzonte, va ripensata “l’alleanza tra l’essere umano e l’ambiente” (C. in v., par. 50), tenendo presente che “uno dei maggiori compiti dell’economia è proprio il più efficiente uso delle risorse, non l’abuso”, a partire dal territorio. Nei territori, infatti, prendono forma le piccole e medie imprese, tessuto economico cardine del Paese; esperienze in cui più facilmente l’imprenditoria assume il volto di comunità del lavoro e dell’intrapresa, sperimentando i valori della corresponsabilità, della familiarità e della solidarietà operosa. L’industria culturale dei territori è una forma distintiva di imprenditorialità e di economia civile, coniugando lavoro, salute, ben/essere, senso di appartenenza e qualità della vita. L’alleanza tra l’essere umano ed ambiente è la chiave di volta dell’ecologia umana ed è una delle chiavi più importanti dello sviluppo: valore economico-sociale e, prima ancora, antropologico. Si tratta di salvaguardare la natura, salvaguardando la natura umana, difendendo la sua inviolabilità, la sua irriducibilità: l’io, nella sua tensione creativa ed associativa, è al centro dello sviluppo, è la forza dinamica dello sviluppo integrale, secondo l’affronto autenticamente umano dei suoi bisogni e dei suoi limiti. Nella parte conclusiva della presente riflessione, è doveroso richiamare l’architrave del magistero di Papa Benedetto, ossia il dialogo fede/ragione, “nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi (C. in v., par. 5). Nella Caritas in veritate, ritroviamo una esplicitazione forte di tale magistero: “il lógos crea diá-lógos”. “La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrasi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose”. (C. in v. par. 4). Nel rapporto lógos /diá-lógos sta l’originale contributo politico dei cristiani nell’agone pubblico. Contributo politico nel senso della costante tensione alla costruzione del bene comune. “Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali.” (C. in v., parg 5). E’ il “processo di argomentazione sensibile alla verità”, di cui Ratzinger parlò nel dialogo con Habermas, che realisticamente fa da argine permanente alla parzialità del potere di cui è intrisa la dialettica partitico-politica. Per Papa Benedetto il Lógos è ragione creatrice. Partecipe di questa ragione, in quanto rapporto con l’Infinito, l’uomo instancabilmente, tra contraddizioni e limiti, cadute e ricadute, sospinto dalla passione per il vero, crea, genera civiltà, alimentando il bene comune. “Volere il bene comune è esigenza di giustizia e di carità” (C. in v., par. 7). “Da una parte, la giustizia: il riconoscimento ed il rispetto dei diritti degli individui e dei popoli. Dall’altra, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono”. (C. in v., par. 7). Entro questa logica si inseriscono le copiose forme di economia del dono presenti oggi nella società e nel mercato, come abbiamo evidenziato nella precedente trattazione, sottolineandone il valore economico-culturale. “La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono”. (C. in v., par. 34). Questa stupefacente esperienza che si sorprende in sé, grazie ad una sovrabbondante intensità di vita, di cui è espressione il fatto storico di Cristo nella società, genera, per sovrabbondanza, un indomabile lavoro per il bene comune, abbracciando e valorizzando ogni tentativo autenticamente umano. “Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di polis, di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità di incidenza nella polis. E’ questa la via istituzionale – possiamo anche dire politica – della carità, non meno qualificata ed incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della polis. Quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso si inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l’eterno. (C. in v., par. 7).
Dopo aver evidenziato, nella prima parte di questo saggio sulla Caritas in veritate, la valorizzazione dei soggetti protagonisti di economia del dono, ricostruendone lo “spessore ontologico”, ci soffermiamo nel prosieguo della riflessione sulla questione della tecnica. Nell’enciclica è tema fondamentale, alla luce del percorso di rivalutazione del significato dell’agire dal punto di vista economico, nonché in considerazione delle potenzialità di sviluppo e delle derive tecnocratiche legate al progresso tecnologico. Il punto di vista che scegliamo nella presente trattazione è la “discoverta” dell’umano, del senso autentico del fare, cioè corrispondente alla natura dell’io, onde contribuire a generare un soggetto impegnato lealmente nella realtà e, quindi, suscitatore e creatore di sempre nuove possibilità ed opportunità di lavoro. E’ la sfida che appartiene soprattutto ai giovani nella costruzione di una fase inedita della storia del lavoro e della civiltà, esplorando le frontiere della robotica, dell’intelligenza artificiale, delle biotecnologie: frontiere che attraversano trasversalmente tutti i campi del vivere, dalla medicina alle neuroscienze, dalla politica alla democrazia, dall’economia al lavoro, sino a determinare non solo le modalità di conoscenza della realtà, ma anche e soprattutto le facoltà di sentire, percepire e concepire se stessi. La tecnica non si configura semplicemente come l’insieme di strumenti con cui l’uomo domina la natura, accrescendo le possibilità umane. E’ la scoperta dell’energia della natura (tema caro ad Heidegger) e del suo utilizzo. Più specificamente e profondamente è la scoperta dell’energia umana applicata alla realtà: il fenomeno umano del potere, come evidenziato da Romano Guardini, Autore particolarmente caro a Papa Benedetto, e come ripreso da don Giussani nell’intervento al Congresso della DC lombarda ad Assago nel 1987. “Il problema dello sviluppo oggi è strettamente congiunto con il progresso tecnologico, con le sue strabilianti applicazioni in campo biologico”. (C. in v., par. 69). Mediante la tecnica, l’uomo conferma e rafforza la sua umanità, rendendo più vero se stesso e più umana la fatica attraverso cui trasfigura la realtà. E’ l’opera della sua genialità, cioè “un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo”: espressione dell’agire umano oggettivo (Giovanni Paolo II, Laborem exercens), la cui origine e ragion d’essere sta nell’elemento soggettivo, ossia l’uomo che opera, esprimendo la sua vocazione nel ed attraverso il lavoro. (C. in v., par. 69). “Per questo la tecnica non è solo mai tecnica. Essa manifesta l’uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo, esprime la tensione dell’animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali. (Caritas in v., par. 69). “A partire dal fascino che la tecnica esercita sull’essere umano, si deve recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell’ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all’appello dell’essere, a cominciare dall’essere che siamo noi stessi”. (C. in v. , par. 70). Nell’attuale momento storico, il dramma dell’umana libertà si gioca nel riguadagnare il senso dell’essere nell’azione, incrementando, nell’esperienza, il profilo umano della persona mentre opera, superando, quindi, continuamente “l’ebbrezza dell’autonomia”. “Lo sviluppo tecnologico può indurre l’idea dell’autosufficienza della tecnica quando l’uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i tanti perché dai quali è spinto ad agire. E’ per questo che la tecnica assume un volto ambiguo. Nata dalla creatività umana quale strumento della libertà della persona, essa può essere intesa come elemento di libertà assoluta, quella libertà che vuole prescindere dai limiti che le cose portano in sé. Il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa un potere ideologico, esporrebbe l’umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un apriori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l’essere e la verità. In tal caso, tutti conosceremmo, valuteremmo e decideremmo le situazioni della nostra vita all’interno di un orizzonte culturale tecnocratico a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai trovare un senso che non sia da noi prodotto. (C. in v., par. 70). “Campo primario e cruciale della lotta culturale tra l’assolutismo della tecnica e la responsabilità morale dell’uomo è oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di uno sviluppo umano integrale”. (C. in v., par. 74). “La mentalità tecnicistica (fa) coincidere il vero con il fattibile. Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo viene automaticamente negato. Infatti, il vero sviluppo non consiste primariamente nel fare. Chiave dello sviluppo è un’intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pienamente umano del fare dell’uomo, nell’orizzonte di senso della persona presa nella globalità del suo essere”. C. in v., par. 70). Cogliere questo senso significa sostenere e favorire esperienze di creatività e di solidarietà nel cuore dello sviluppo tecnologico, valorizzando e promuovendo l’imprenditorialità come creazione di opportunità e di condivisione dei talenti personali, con particolare attenzione alla cura dell’ecologia umana. Intendiamo rivolgere l’attenzione a questo aspetto soggettivo di originale imprenditorialità, registrando le crescenti esperienze giovanili in atto: soggetti d’intrapresa che evidenziano lo spessore civile del fenomeno umano-economico nella società dell’informazione e delle tecnologie avanzate. Appare evidente, ma non assolutamente scontato, che uno Stato democratico, per salvaguardare la sua natura e la sua missione, debba concentrare le sue politiche sussidiarie e solidali sui livelli della formazione e dell’innovazione, incoraggiando, valorizzando, promuovendo ciò che nasce dalla “costituzione civile” delle società. E’ questa la “battaglia” politica centrale, promuovendo costantemente processi di democrazia economica. In questo orizzonte, va ripensata “l’alleanza tra l’essere umano e l’ambiente” (C. in v., par. 50), tenendo presente che “uno dei maggiori compiti dell’economia è proprio il più efficiente uso delle risorse, non l’abuso”, a partire dal territorio. Nei territori, infatti, prendono forma le piccole e medie imprese, tessuto economico cardine del Paese; esperienze in cui più facilmente l’imprenditoria assume il volto di comunità del lavoro e dell’intrapresa, sperimentando i valori della corresponsabilità, della familiarità e della solidarietà operosa. L’industria culturale dei territori è una forma distintiva di imprenditorialità e di economia civile, coniugando lavoro, salute, ben/essere, senso di appartenenza e qualità della vita. L’alleanza tra l’essere umano ed ambiente è la chiave di volta dell’ecologia umana ed è una delle chiavi più importanti dello sviluppo: valore economico-sociale e, prima ancora, antropologico. Si tratta di salvaguardare la natura, salvaguardando la natura umana, difendendo la sua inviolabilità, la sua irriducibilità: l’io, nella sua tensione creativa ed associativa, è al centro dello sviluppo, è la forza dinamica dello sviluppo integrale, secondo l’affronto autenticamente umano dei suoi bisogni e dei suoi limiti. Nella parte conclusiva della presente riflessione, è doveroso richiamare l’architrave del magistero di Papa Benedetto, ossia il dialogo fede/ragione, “nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi (C. in v., par. 5). Nella Caritas in veritate, ritroviamo una esplicitazione forte di tale magistero: “il lógos crea diá-lógos”. “La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrasi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose”. (C. in v. par. 4). Nel rapporto lógos /diá-lógos sta l’originale contributo politico dei cristiani nell’agone pubblico. Contributo politico nel senso della costante tensione alla costruzione del bene comune. “Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza e responsabilità sociale, e l’agire sociale cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili come quelli attuali.” (C. in v., parg 5). E’ il “processo di argomentazione sensibile alla verità”, di cui Ratzinger parlò nel dialogo con Habermas, che realisticamente fa da argine permanente alla parzialità del potere di cui è intrisa la dialettica partitico-politica. Per Papa Benedetto il Lógos è ragione creatrice. Partecipe di questa ragione, in quanto rapporto con l’Infinito, l’uomo instancabilmente, tra contraddizioni e limiti, cadute e ricadute, sospinto dalla passione per il vero, crea, genera civiltà, alimentando il bene comune. “Volere il bene comune è esigenza di giustizia e di carità” (C. in v., par. 7). “Da una parte, la giustizia: il riconoscimento ed il rispetto dei diritti degli individui e dei popoli. Dall’altra, la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono”. (C. in v., par. 7). Entro questa logica si inseriscono le copiose forme di economia del dono presenti oggi nella società e nel mercato, come abbiamo evidenziato nella precedente trattazione, sottolineandone il valore economico-culturale. “La carità nella verità pone l’uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono”. (C. in v., par. 34). Questa stupefacente esperienza che si sorprende in sé, grazie ad una sovrabbondante intensità di vita, di cui è espressione il fatto storico di Cristo nella società, genera, per sovrabbondanza, un indomabile lavoro per il bene comune, abbracciando e valorizzando ogni tentativo autenticamente umano. “Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di polis, di città. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della sua vocazione e secondo le sue possibilità di incidenza nella polis. E’ questa la via istituzionale – possiamo anche dire politica – della carità, non meno qualificata ed incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori delle mediazioni istituzionali della polis. Quando la carità lo anima, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno soltanto secolare e politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso si inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l’eterno. (C. in v., par. 7).

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