giovedì 31 ottobre 2019

Il Poeta del primo chiarore dell'alba

La struttura valoriale della Scuola meridiana di economia civile si radica nella riflessione filosofica mediterranea sull’Essere, a partire dalla definizione aristotelica dell’uomo “per natura essere socievole”. Giambattista Vico (Napoli 23 giugno 1668; Napoli 23 gennaio 1744), maestro di Antonio Genovesi, indagò sui primordi del farsi sociale e socievole dell’individuo/bestione, cioè del farsi umano dell’uomo nella storia. Nel castello del marchese Rocca a Vatolla, nel Cilento, (Salerno), “bellissimo sito di perfectissima aria, dalla quale fu restituito alla salute … ebbe tutto l’agio di studiare e gettare le basi della Scienza Nuova” (Vico, Autobiografia). Vatolla sarà da lui ricordata anche come “aspra selva solinga arida e mesta” (Vico, Affetti di un disperato), sentimento che attraversa tutta la Scienza Nuova, descrivendo l’avventura umana nella “gran selva di questa terra”. Nella Scienza Nuova, Vico racconta “la storia del modo in cui l’uomo diventa uomo, passando dagli esordi bestiali alla costituzione di una mente riflessiva” (Emanuela Sanna). Una immensa letteratura ha indagato ed indagherà sui fondamenti vichiani della filosofia della storia, del diritto, della politica, dell’economia, della poetica, della linguistica, della psicologia, dell’antropologia. Il presente saggio si soffermerà sul primo accenno, sul primo sussulto dell’umano, quando nel bestione primitivo, colpito dai tuoni, dal fragore e dal bagliore dei fulmini, nello stupore e nella paura per gli accadimenti naturali, accade qualcosa di nuovo, un avvenimento debordante e scatenante. “Dopo il diluvio universale …. disseccata l’umanità dall’universale inondazione, mandasse esalazioni secche, il cielo finalmente folgorò, tuonò con tuoni spaventosissimi … pochi giganti che dovettero essere i più robusti, che dovevano essere dispersi per i boschi posti sulle alture siccome le bestie più robuste ivi hanno i loro rifugi, qui (i giganti) spaventati ed attoniti dal grande effetto di cui non sapevano la ragione, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo”. (Sn 1744, Della metafisica poetica). Accade un fatto nuovo, un evento, un avvenimento: un evento inusitato, una fortissima tempesta si abbatte sulla selva in cui questi bestioni vivono vagando. (I giganti, questi corpi abnormi, avvertirono) “.. che ne’ disperati soccorsi della natura anco essi disiderano, esservi una cosa alla natura superiore, che gli salvasse …. e sì dentro i nembi di quelle prime tempeste, al barlume di que’ lampi videro questo gran raggio di verità ...” (Sn, Della sapienza poetica, ed. 1730, a cura di Paolo Cristofolini e Manuela Sanna).
Avvertirono il cielo”: un lampo nella mente. Cominciarono ad avvertire, a percepire, a guardare “con animo perturbato e commosso”: è il primo accenno del pensiero umano. “Uomini crudi, fieri, ed immani” si affidarono a questa Realtà provvidente, ponendo fine al loro vagar senza meta nella gran selva della terra. Si fermarono, “fissando” i loro congiungimenti carnali. Gradualmente emerse nei “bestioni” la loro natura umana, creando raggruppamenti e sviluppando progressivamente una “fantastica”, “ingegnosa”, “mitica” attività di interpretazione e trasformazione della realtà. “La fantasia che è l’occhio dell’ingegno”. Privi di raziocinio, ma di ricchissima fantasia, iniziarono un’opera poetica/poietica. I primi uomini furono poeti.
Poeti, che lo stesso in greco suona che criatori” (Sn ed.1744 a cura di P. Rossi; ed. di A. Battisini): “con uno più sublime lavoro …. diedero sensi, e passioni a corpi inanimati” (Sn, Della sapienza poetica, 1730) … “furono necessitati di dar fuoco alle selve, e con molta lunga dura fatiga ridurle alla coltura, e seminarvi il frumento”. (Sn, Della sapienza poetica, 1730). Così, cominciò a dispiegarsi in essi il fattore umano, cioè la vis veri “sepolta” nei loro stessi corpi bestiali, modificando la loro mente, allargando, quindi, la capacità di intendere e conoscere: “cominciò a menar fuori in un certo modo la forma dell’anima umana, ch’era affatto seppolta dalla materia ne’ vasti corpi de’ giganti” (Sn Dell’iconomia poetica, 1730). Fu la “discoverta” dell’umano: il primo germoglio nella mente dei “semina veri”, delle “faville di Dio”, che la Provvidenza aveva inculcato nella loro mente. La discoverta della vis veri, tensione al vero, di cui l’individuo cominciò ad avvertire la scossa, sotto l’urto delle forze naturali, nonchè dei suoi focosi istinti e bisogni, avviando un cammino sensibile di approssimazione al vero; prima approssimazione e costruzione del “mondo civile”. Giuseppe Capograssi di questo inizio umano ha dato una rappresentazione mirabile: “Vico è il poeta dell’alba. Il giorno fatto, il giorno pieno, tutto ciò che è dispiegato non lo interessa. Lo interessa il nascere del primo filo di luce: il pensiero umano nascente”. (Capograssi, Opere, Vol. IV). In questo “primo filo di luce” c’è l’incipit dell’umana avventura; c’è il bagliore del pensiero nascente, cioè quell’apparire e quell’avvertire che determinano il passaggio dallo stato ferino a quello umano, quando l’io rozzo e bestione comincia ad intendere in un certo modo il reale, come si presenta nell’esperienza, generando rapporti con l’Altro. Nel bagliore di questo lampo, che determina una “modificazione della mente”, sta un “fatto” nuovo: il “tremolar” dell’io, il brivido del sé, l’avverarsi nell’albore della natura umana. In ogni tornante della storia, l’uomo deve riconquistare, tra decadimenti ed avanzamenti, la sua vera natura, la sua originale fattura umana, fatta di vis veri, rinnovando, istante per istante, la sua decisione libera, per “ritrovare” la propria umanità e libertà. Al primo filo dell’alba umana, al primo chiarore dell’alba, quando la persona si ridesta alla coscienza di sè, ci introduce l’impareggiabile riflessione sul senso religioso di don Giussani, accompagnandoci alla comprensione dell’esperienza elementare di ciascun uomo, alla “discoverta” dell’umano che è in noi, da cui irrompe un’intensa, appassionata, indomita opera poetica-poietica di trasfigurazione della realtà:
Supponete di nascere, di uscire dal ventre di vostra madre all’età che avete in questo momento, nel senso di sviluppo e di coscienza così come vi è possibile averli adesso. Quale sarebbe il primo, l’assolutamente primo sentimento, cioè il primo fattore della reazione di fronte al reale? Se io spalancasi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una “presenza”. Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario corrente dalla parola “cosa”. Le cose! Che “cosa”! Il che è una versione concreta e, se volete, banale, della parola “essere”. L’essere: non come entità astratta, ma come presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone. …. Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe è all’origine del risveglio dell’umana coscienza”. (L. Giussani, Il Senso Religioso, cap. X). E’ la scintilla che muove il motore umano. Torna l’attualità di Vico: la costruzione della storia in forza della vis veri, che mette in moto tutti i fattori dell’umano: il senso, la fantasia, la memoria, la ragione. Lungo la traiettoria vichiana della “mente spiegata, dispiegata”, nella sua unità profonda con l’esperienza, con il corpo, ci introduciamo alle nuove frontiere delle neuroscienze, della robotica, dell’intelligenza artificiale, aprendo varchi sconosciuti nella conoscenza attraverso nuovi saperi: la neurofilosofia, la neuroeconomia. Un capitolo tutto da scrivere nella storia del lavoro e della civiltà, preservando l’umano che è in noi, la scintilla sorgiva del cuore umano, che mette all’opera, che acuisce l’ingegno, generando storia e civiltà. Vico è il cantore dell’ingegno che unisce: “Ingenium facultas est in unum, diversa conjugendi”. Ingegno è la facoltà di unificare cose separate, di congiungere cose diverse (individuando) tra lontanissime cose, nodi che in qualche ragione comune le stringessero insieme”.

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